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Coronavirus. Storia del buco e della talpa – Piccolo racconto metaforico (e metadentrico)

Nessuno sa dire se si trattasse di talpe o di marmotte, forse suricati, a seconda di dove si fosse ma poco cambia. In questi tempi spretati, il cronista di questa strana avventura fa suo il motto dei Gesuiti “scrivo male, penso bene”.

Le (italianissime) talpe si erano organizzate in società, seguendo l’esempio dei lontani non parenti suricati.

Ogni tanto sortivano dai propri buchi sotterranei per scorrerie di routine, come pomodorate con le amiche, vermicelli, ardite scorribande in campi di fagioli (in inglese “effectors”).

Ma stavolta le cose erano cambiate. Le volpi, le donnole e altri figli di predatori si comportavano più come branchi di lupi e con strategie da annientamento, Come spinte da un freddo più profondo.

“Cavolo! ragazze”, si dissero le talpe, “qui dobbiamo rintanarci per bene e mi sa ancora più giù!”.

Fu un periodo assurdo ed alienante, appena mitigato dalle scorte di lombrichi e dalle radici d’aglio del circondario.

Neppure il contadino se le filava di pezza, “tanto per distrarle”, pensavano.

E anche se i buchi hanno un che di suggestivo, come sa il lettore, gli andarono a noia. Quando il pericolo scemava (credevano loro), ogni tanto, qualcuna alzava la testa, si affacciava e patatrac! tanti saluti.

“Cacchio, siamo finite! ma… ragazze abbiamo altri buchi, con corridoi di passaggio, preparati da tempo dalle nostre esploratrici.” “Possiamo usarli per filare via dai predatori saltando da un buco all’altro”. “Siiii…”.

Finale brutale: molti buchi erano tappati, non preparati, non mantenuti, da talpa-tizio e da talpa-caio in tempi di ozio e di abbondanza. Saltarono fuori dalle tane, raggiunsero i buchi di sicurezza e li trovarono chiusi…e furono c…i.

Per il lettore disattento, la spiegazione solo su richiesta.

 

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