Uscirà a breve, editore Fondazione Terre Riemerse, il saggio «La Gaetana – la spada napoletana” – Volume I – Dal periodo Muromicio all’epoca Giangi, curatore Bruno Biondi, prefazione di Nosibate UnKiodo. Seguirà un secondo volume, che abbraccerà tutto il periodo della fioritura Mummarell.
Ne pubblichiamo un espresso*:
“Forgiata alle falde del monte sacro (1) e da qual popolo, nel fuoco della lava incandescente, prendeva vita, agli albori dell’epoca media (2) l’arma più impressionante e leggendaria della storia: la Gaetana.
Questa misconosciuta arma bianca a filo singolo, impugnabile a una o due mani, atta a colpire di punta o di tacco, sarà copiata (secoli dopo), sia nella foggia che nel nome, dagli armaioli giapponesi, in quella che sarà una squallida imitazione. Nel “Trattato definitivo sulla Gae-Tana” (Napoli, 1954 Ed.ni Contropaccotto), di De Laurentiis-Gattuso, viene ritenuta evidente tale verità.
A riguardo, un antico documento commerciale del Sec. IX, sui “traffici” tra il Califfato di Napoli e la Siria, riporta i messaggi tra il commerciante (forse di origine ebraica o sumera, tale “Effem I Nat” e il fornitore “Owall Arius”): “Saluti a te Grande Wallarius, da quant tiemp’ nun te fai vvedè; sto aspettann’ ll’acciajo Da-maschio, sbrigati” (alcuni studiosi dubitano della natura strettamente commerciale dello scritto).
Diverse fonti materiali documentano una grande produzione di lame per guerrieri fin dall’epoca Bizantina, ovviamente nella zona di Toledo.
Già lo scrittore nipponico Matsu Tanto (3), autore dell’opera rinascimentale sulla polemologia “Tiskifo Nonpoco”, sul valore positivo attribuito all’avversario, ci descrive di come i missionari (?!) giapponesi riuscirono a carpire “il segreto dell’acciaio”: “Io e il mio accompagnatore Nogapito Nogatzu, travestiti da carbonai e spacciandoci per munacielli penetrammo (Nogatzu molto in profondità) nell’officina che i barbari locali (4) chiamano Fabbr’ Ferrar. Qui, brandendo la testa di un martello lucano o cilentano, che sono le più dure sulla terra, con agile mossa (5) colpiva e ribatteva il ferro al calor blu. La cosa più difficile da capire fu la provenienza del metallo. Ma il garzone del pizzaiuolo, per una banconota da 4 euro reperita sul posto al prezzo di 3, ci riferì che proveniva dallo “scassamachine della piazza di fronte”. Preso atto che tale qualità non ci sarebbe mai stata in Giappone, ci rassegnammo a limitarci a copiare il procedimento: dopo ore di ozio propiziatorio in officina, il fabbro chiamava a raccolta i suoi aiutanti e dopo aver distribuito degli i-ching con figure a cavallo, con immagini di re o regine, singole o multiple di calici, bastoni ma anche spade, discuteva con loro animatamente. Così improvvisamente comparivano delle lame già forgiate con una scritta incisa in una lingua da noi intraducibile “made in Japan”, pronte per essere immesse sul mercato”.
Il grande guerriero Pijamoto Efuji, esteta studioso delle pratiche napoletane, alla fine del 1700 spiegò che: “noi Giapponesi non fummo mai in grado di arrivare a Tanto (3bis)”.
Antiche cronache dello Shogun riferiscono di navi giapponesi ritrovate nel porto di Napoli completamente vuote e prive di equipaggio e di come gli ambasciatori nipponici col loro seguito furono ricevuti, per chiarimenti, dal Bargello (oggi Questura) solo 25 anni dopo.
L’arma più famosa, poi donata al Re di Napoli, fu forgiata da Naga Kata, con il ferro dei binari della Napoli-Portici e temprata con le lacrime dei suoi figli (che lui prendeva a calci nel culo quando non gli restituivano le paghette). Venne chiamata Lo Stelo Del Crisantemo (perché il Re, quando la prese si sfellò un dito e la fece seppellire alle Fontanelle).
Ovviamente le spade vendute dal fabbro (non possiamo confermare che le costruisse proprio del tutto lui) presero il nome di ciò a cui teneva di più: la moglie, Gaetana, appunto.
Non tutti credettero a questa versione, perché lui soleva chiamarla “Aitana”, cosa che secoli dopo avrebbe ispirato anche il cartone animato su di un loro discendente, “Aitan 3”.
Forse non l’amò così smodatamente, dato che le suggerì: “Cara…Kiri!”.
La Gaetana superava in micidialità ogni arma coeva: bastava sfiorarla per prendere il tetano, talvolta il colera, specie nell’epoca “Dò Vibbrione”. In ogni caso faceva vomitare, anche guardandola.
Al servizio della disciplina che scaturì da questo eccezionale strumento bellico si sviluppò una generazione di guerrieri invincibili. Costoro venivano addestrati ad una superiore educazione: riuscivano a non mangiare durante i pasti, ad occultarsi nei tram ai controllori, a passare inosservati ai primi posti nelle file. Erano i Minghja, una casta inarrivabile, nata in Sicilia, guarda caso a Katania! Scusate seppuku.
* errata corrige: estratto. Ci scusiamo per il lapsus partenopeo.
Note
(1) Il Vesuvio.
(2) Tutto era medio a quel tempo, la vita, l’evo, il dito; la mediocrità era la regola.
(3) L’erudito Matsu Tanto, vissuto a cavallo, fu significativo nella storia delle armi orientali: diede il suo nome all’omonimo pugnale.
(3bis) Vedi (3).
(4) Come dar torto ai Giapponesi, d’altronde nel Sud Italia erano state inventate solo la matematica, la filosofia e la lingua letteraria (e la mozzarella di bufala).
(5) Cit. dall’opera giapponese “Lady Oscar”.